Siamo Tutti Complici di Femminicidio

Sì, anche tu. Anche io.

RELAZIONE DI COPPIA

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Ogni donna uccisa da chi diceva di amarla non è vittima solo di un assassino.

È vittima di una cultura e di un linguaggio che abbiamo permesso, tollerato, ignorato. O peggio, che abbiamo giustificato, normalizzato, perfino celebrato in canzoni, film, modi di dire che ripetiamo senza pensarci.

Il femminicidio non è un fulmine a ciel sereno. Non è un'esplosione improvvisa e inspiegabile di follia. È solo il vertice estremo di una piramide che poggia su fondamenta solide, costruite giorno dopo giorno da tutti noi.

La catena della violenza

Chi insulta, chi controlla, chi giustifica la rabbia, il ricatto, chi dice "mi appartieni", non è così lontano da chi uccide.

Questa affermazione può sembrare provocatoria, forse eccessiva. Ma è necessaria. Perché finché continueremo a tracciare una linea netta tra "i mostri" che uccidono e "le persone normali" che al massimo sono un po' gelose o possessive, non capiremo mai come funziona davvero la violenza.

Chi esercita violenza psicologica è portatore dello stesso virus che poi, in certi contesti, diventa violenza fisica. È il propagatore di una cultura che rinnova e diffonde negli atteggiamenti e nel linguaggio quotidiano.

Quando questa spora attecchisce nel terreno fertile dell'insicurezza di una mente fragile e instabile, diventa violenza. Quando incontra la disperazione, l'incapacità di gestire il rifiuto, il senso di diritto sul corpo e sulla vita dell'altra persona, diventa omicidio.

Ma la spora c'era già. Era nell'aria. L'abbiamo respirata tutti.

Il morbo del possesso

La cultura del possesso è il morbo. E va chiamata per nome, senza eufemismi, senza giri di parole.

I sintomi? Li conosciamo tutti. Li abbiamo visti, li abbiamo ascoltati, forse li abbiamo anche riprodotti senza rendercene conto:

  • Si confonde l'amore con la proprietà: "È mia", non "è con me"

  • Si nominano doveri che non esistono: "Una donna deve rispettare il suo uomo"

  • Si giustifica la gelosia e il controllo come "amore vero": "Se non è geloso vuol dire che non gli importa"

  • Si romanticizza l'ossessione: "Non può vivere senza di lei"

  • Si accetta il sacrificio come prova d'amore: "Se mi amassi davvero, rinunceresti a..."

  • Si normalizza la violenza emotiva: "È fatto così, lo sai come è quando si arrabbia"

Questi non sono dettagli. Non sono sfumature innocue. Sono i mattoni con cui si costruisce la violenza.

Tutti complici

Diciamolo chiaramente: chiunque adotti la cultura del possesso o la sua retorica è complice.

Chi ne replica gli atteggiamenti o li giustifica. Chi li scrive in romanzi che vengono celebrati. Chi li canta in canzoni che diventano hit. Chi li rappresenta in film e serie TV spacciandoli per romanticismo. Chi tace quando sente un amico parlare della sua ragazza come di un oggetto. Chi minimizza quando una donna racconta di sentirsi controllata. Chi volta lo sguardo quando vede segnali evidenti.
Tutti complici.

Questa parola – "complici" – fa male. Ci fa sentire attaccati, ingiustamente accusati. "Io non ho mai alzato le mani su nessuno", "Io rispetto le donne", "Io non c'entro niente con quei mostri".

Ma essere complici non significa aver commesso direttamente la violenza. Significa aver creato, mantenuto, alimentato il sistema culturale che la rende possibile. Significa aver accettato come normale ciò che normale non è.

La stessa strada

La verità è che chi esercita violenza – in qualunque forma – è sulla stessa strada di chi uccide.

Magari più indietro, magari più in ombra, magari senza la consapevolezza o l'intenzione di arrivare fino in fondo. Ma la direzione è la stessa. Stessa matrice, stessa cultura, stessa radice profonda.

Non tutti quelli che controllano uccideranno. Non tutti quelli che urlano alzeranno le mani. Non tutti quelli che sono gelosi in modo patologico arriveranno alla violenza fisica. Ma tutti stanno camminando sulla strada che porta lì. E tutti stanno insegnando ad altri – con l'esempio, con le parole, con il silenzio – che quella strada è percorribile.

È la stessa tossina che va diagnosticata e curata immediatamente, perché può solo cronicizzarsi o peggiorare. Non esiste una versione "lieve" di questa cultura che sia accettabile. Non esiste un livello di possessività che sia sano. Non esiste un controllo che sia amore.

La cultura come cura

Le leggi puniscono ma non curano.

Possiamo inasprire le pene, aumentare i controlli, moltiplicare le misure restrittive – e dobbiamo farlo. Ma se non cambiamo la cultura, continueremo solo a mettere cerotti su una ferita che sanguina dall'interno.

La vera cura è cultura. È educazione. È decostruzione quotidiana di tutto ciò che abbiamo imparato e che ci sembra normale.

Dobbiamo ripetere incessantemente che l'amore è scelta, fiducia e libertà. Non controllo, non possesso, non dipendenza. Dobbiamo ridefinire completamente cosa significa amare, smontando tutti i miti tossici che ci portiamo dietro da generazioni.

Dobbiamo smontare ogni giorno questa narrazione tossica che rende normale il dominio, che glorifica il dolore e il sacrificio come prove d'amore, che confonde la forza con la prepotenza, che spaccia la gelosia per passione.

E questo lavoro non può essere delegato solo alle donne. Non può essere responsabilità solo di chi subisce la violenza denunciarla, riconoscerla, contrastarla. Deve essere responsabilità di tutti, soprattutto degli uomini, smontare la cultura della mascolinità tossica che genera questa violenza.

Il coraggio di essere antidoto

Serve coraggio per dire: "No, non è amore. È possesso."

Serve coraggio per fermare un amico quando fa una battuta sessista. Per dire a un fratello che il modo in cui parla della sua ragazza non è accettabile. Per non ridere a quella canzone che celebra la gelosia violenta. Per parlarne in famiglia, anche quando è scomodo. Per mettere in discussione le dinamiche che abbiamo sempre visto e che ci sembrano "normali".

Serve coraggio per guardarsi dentro. Per riconoscere che forse, in qualche momento, anche noi abbiamo contribuito. Che forse abbiamo detto o fatto cose che alimentavano quella cultura. Che forse non siamo così distanti come vorremmo credere.

Serve coraggio per smettere di sentirci "lontani" dalla violenza quando, in fondo, l'abbiamo accolta nei dettagli. Nei piccoli controlli che sembravano innocui. Nelle aspettative non dette. Nelle frasi fatte che ripetiamo senza pensarci. Nel silenzio complice davanti a comportamenti che sapevamo essere sbagliati.

Inizia da te

Vuoi combattere il femminicidio? Inizia da te.

Dal tuo linguaggio. Dalle parole che scegli quando parli delle donne, delle relazioni, dell'amore. Smetti di usare metafore di possesso. Smetti di parlare di conquista. Smetti di chiamare "passione" quello che è ossessione.

Dalle tue relazioni. Dal modo in cui tratti chi ami. Dalla libertà che riconosci all'altra persona. Dal rispetto delle sue scelte, anche quando non ti piacciono. Dalla tua capacità di accettare un no, un confine, una fine.

Dal tuo mondo, dalle tue canzoni, dai tuoi film, dai tuoi libri. Da quello che consumi e quello che condividi. Da quello che sostieni con i tuoi like, con i tuoi ascolti, con i tuoi soldi.

Il cambiamento che chiedi passa dalle parole che usi e dai legami che scegli. Non è qualcosa che accade "là fuori", lontano da te. È qualcosa che costruisci o decostruisci ogni giorno, in ogni piccola scelta.

Le tre verità fondamentali

Non è amore se fa paura. Se devi misurare le parole, nascondere le tue amicizie, camminare sulle uova per non innescare una reazione. Se vivi in uno stato di allerta costante. Se hai paura di dire la cosa sbagliata.

Non è amore se toglie libertà. Se devi chiedere il permesso. Se devi giustificare ogni movimento. Se non puoi più essere te stessa. Se devi cambiare per essere accettata.

Non è amore se devi scomparire per restare. Se devi sacrificare i tuoi sogni, i tuoi amici, la tua identità. Se devi renderti piccola perché l'altro si senta grande. Se il prezzo per essere amata è smettere di essere te.

Questo non è amore. È violenza. E dobbiamo tutti imparare a riconoscerla, chiamarla per nome, e rifiutarla. Sempre. Senza eccezioni. Senza giustificazioni.

Conclusione: una responsabilità collettiva

Il femminicidio non è un problema delle donne. È un problema della società intera.

Non è qualcosa che accade solo nelle case "difficili", nelle famiglie "problematiche", con "quei" uomini. Accade ovunque, in ogni classe sociale, in ogni contesto, perché affonda le radici in una cultura che è trasversale.

E questa cultura cambia solo se tutti – tutti – decidiamo di cambiarla. Non domani, non quando arriverà la legge giusta o il programma educativo perfetto. Oggi. Adesso. Nelle nostre case, nelle nostre relazioni, nelle nostre conversazioni quotidiane.

Ogni volta che scegli di chiamare le cose con il loro nome, stai cambiando la cultura. Ogni volta che ti opponi a un linguaggio tossico, stai salvando una vita. Ogni volta che educhi un figlio al rispetto e alla libertà, stai spezzando la catena.

Siamo tutti complici. Ma possiamo anche scegliere di diventare tutti antidoto.